Come agire in una società il cui unico scopo è diventato la riproduzione della merce e non più dell’umano? Che fare quando un materialismo gretto che occulta i processi di “creazione del mondo sociale”prende il sopravvento? Come non rassegnarsi, insomma, al “così è ed era inevitabile che fosse”? Sono questi gli interrogativi sollevati in quattro saggi di David Graeber pubblicati con il titolo Le origini della rovina attuale (Edizioni e/o, 2022). Un lavoro di ricerca che si propone di studiare la storia umana con lenti nuove, per non rassegnarsi al “così è sempre stato in ogni luogo e in ogni tempo”. Al centro, interrogativi che vanno al cuore dei nostri fondamenti sociali: che cos’è il consumismo? Che ce ne facciamo della gerarchia? Come nasce e si occulta un’ideologia? Insomma, il capitalismo è destinato a dominare per sempre?
Al capitalismo (o meglio contro il capitalismo) David Graeber ha dedicato buona parte della sua vita politica e intellettuale. E questo tanto nel lavoro accademico (i suoi studi antropologici) quanto nell’attivismo politico e di movimento (esempio del miglior anarchismo internazionalista e autogestionario). Quando leggiamo Graeber, infatti, siamo di fronte non al lavoro teorico di un professore universitario ma a un vivace e agitato intelletto, ben piantato nel mondo. Non è facile, dunque, restituire la giusta tridimensionalità al suo inquieto “interrogare il reale” e al suo volerlo cambiare nelle piazze insieme a tanti e tante, con ingegno e creatività politica.
Eppure, per quanto la sua ricca produzione non sia ancora del tutto accessibile in Italia, questa recente traduzione di una delle sue prime opere può costituire una buona occasione per studiare e valorizzare la sua ricca eredità politica e intellettuale. Questa, come tutte le sue pubblicazioni, ci aiuta a vedere le continuità e le differenze nelle società umane: quel che è così da sempre e quel che è del tutto nuovo, la genesi dei pensieri e delle pratiche sociali, la loro riconfigurazione in base alle epoche, il rapporto stretto e inscindibile tra materia e cultura, tra struttura e sovrastruttura.
Curato per il pubblico italiano da Lorenzo Velotti, il libro è pubblicato nella nuova Piccola Biblioteca Morale diretta da Goffredo Fofi, e non poteva trovare collocazione migliore che in una collana che raccoglie gli scritti di uomini e donne accomunati da una inquieta ricerca sull’esistente e le sue origini, le sue storture e le possibili vie di fuga. Non è un caso allora che l’opera originale di Graber si intitoli proprio Possibilities. I primi quattro saggi di quella raccolta originale, ora tradotti da Carlotta Rovaris, sono una stratificata e a tratti complessa storia delle idee, svolta con gli strumenti e il metodo dell’antropologo. Essi ci consegnano un’archeologia dei costrutti concettuali e comportamentali della società occidentale, colti nella loro somiglianza e differenza rispetto alle altre civiltà del mondo. Così, quelli che sono concetti troppo spesso dati per scontati vengono riportati alla loro genesi storica, “storicizzati” anziché “naturalizzati”, strappati al processo di essenzializzazione che li vorrebbe eterni. Con Graeber, insomma, si ritorna all’origine delle idee e dei meccanismi sociali, per ridare profondità storica alle configurazioni culturali e materiali, per coglierne la matrice geografica e la loro “relatività” che poi è sempre sinonimo di “transitorietà”.
Con Graeber si ritorna all’origine delle idee e dei meccanismi sociali, per ridare profondità storica alle configurazioni culturali e materiali.
Veniamo dunque al primo saggio che è dedicato al concetto di “gerarchia” e, inevitabilmente, alla storia del carnevalesco quale sua sovversione. Il carnevale è stato a lungo – e in certe parti del mondo ancora è oggi – una festa ribelle portatrice di valori terreni, al limite dell’animalesco. Nel giorno del carnevale si invertono i ruoli, il potere viene dileggiato, la logica dell’evitamento e della formalità viene sovvertita. Ma quand’è che questa usanza che era il frutto di una “relazione di scherzo” ampiamente diffusa nelle classi popolari, è andata marginalizzandosi? Analizzando il puritanesimo della prima età moderna Graeber ci racconta il lungo processo che Norbert Elias ha definito “civilizzazione dei costumi”, che ha riscritto la dialettica io-mondo. A un certo punto, ci spiega Graeber, si è innalzata la soglia dell’imbarazzo e della vergogna come esito dei processi di riforma delle maniere che ha investito la cultura popolare. Attraverso una serie di tecniche e condizionamenti, l’essere umano si è sganciato dalla sua natura terrena in continuità con il mondo fuori di sé: ha ripudiato le grida, i versi, gli insulti, le escrescenze, il cibarsi scomposto, l’accoppiarsi “selvaggio” che lo caratterizzavano, in favore di una cultura che si faceva sempre più puritana per mezzo anche della nuova educazione dei giovani. È stato allora che le feste e i rituali popolari propri del carnevale si sono configurati come “un’ aggressione scherzosa e un’utopia idealistica”. È, dunque, la tarda modernità a consegnarci una gerarchia più rigida tra alto e basso. Questa genealogia, insomma, ci aiuta a guardarci da fuori e a ragionare sulle possibilità nel presente di una ribellione ai costumi borghesi, alle sue moralistiche “clausure”. Possiamo oggi (e come) reinventare la relazione di scherzo quale pratica sovversiva?
La creazione reciproca di sé e degli altri è l’unica vera invariante della storia umana, indebitamente celata dal sistema di pensiero attuale.
Il secondo saggio e il terzo saggio sono invece dedicati alle origini di un certo “individualismo possessivo” e commerciale, e ci riportano a quando “le persone cominciarono gradualmente a concepirsi come esseri isolati che definiscono le loro relazioni con il mondo non in termini di rapporti sociali ma in termini di diritti di proprietà”. Da lì, ci spiega Graeber, viene l’occultamento di ciò che le persone fanno davvero e hanno sempre fatto storicamente: non tanto consumare oggetti ma prodursi a vicenda, curare e curarsi, costruire identità. La creazione reciproca di sé e degli altri è l’unica vera invariante della storia umana, indebitamente celata dal sistema di pensiero attuale.
In fin dei conti, la vita sociale altro non è che questo: la produzione di persone (di cui la produzione di cose non è che un momento subordinato) ed è solo la stramba organizzazione del capitalismo che ci permette anche solo di immaginare che le cose stiano diversamente.
Va perciò presa seriamente la separazione tra produzione e riproduzione che finisce per invisibilizzare il mastodontico lavoro di cura che ogni società capitalistica incorpora. È quello che ci insegna la teoria femminista, del resto, ossia che in realtà ogni società volge primariamente i propri sforzi verso la “creazione delle persone”, quel lavoro di cura per cui “gli esseri umani sono progetti di autocreazione”, o meglio “processi di creazione […] per la maggior parte fatta da altri”. Sebbene
quasi tutti i desideri, le passioni, gli impegni e le esperienze più intensi nella vita della maggior parte delle persone – i drammi familiari, gli intrighi sessuali, i successi scolastici, l’onore e il riconoscimento pubblico, le speranze per i propri figli e nipoti, i sogni di posterità dopo la morte – hanno sempre ruotato proprio intorno a questi processi di creazione reciproca degli esseri umani, […] il meccanismo di creazione del valore tende a mascherare questo aspetto, postulando una qualche sfera superiore, di valori economici.
Così, ipotizza provocatoriamente Graeber, non è il capitalismo a essere sempre esistito, bensì la schiavitù a non essere mai finita. Entrambi i sistemi si appropriano di valore prodotto altrove: nel caso del capitalismo l’operazione specifica è quella di estrarre valore, “attualizzando” nel lavoro produttivo il valore creato “in potenza” in ambito domestico.
Ecco che siamo arrivati all’ultimo saggio, che permette di leggere in controluce l’intera vocazione politico-intellettuale di Graeber. In questo lavoro si affronta uno dei temi centrali della sua indagine, che è poi alla base di moltissime delle relazioni umane, l’essenza potremmo dire del comportamento e delle sue motivazioni: il concetto di “creazione di valore”. Il saggio ambisce a chiarire che ruolo giochi la creatività e l’immaginazione nei (non-)cambiamenti sociali. Se infatti “non si vogliono vedere gli esseri umani come meri effetti collaterali di una struttura o un sistema più grandi, o come atomi a caccia di un’imperscrutabile felicità, ma come esseri capaci di creare dei propri mondi dotati di significato” occorre riconoscergli una certa capacità creativa.
Ecco allora che Graeber si mette sulle tracce di alcuni “momenti creativi”, per scoprire come la totalità delle società umane abbiano creato, in diversi tempi e luoghi, degli oggetti (feticci) o degli accordi, dei contratti, dei patti, che poi hanno assunto un valore immanente, presunto “oggettivo”, occultando come quel valore fosse in realtà socialmente creato, prodotto e perpetuato. Insomma, gli umani hanno, in ogni dove e in ogni tempo, inventato stratagemmi “culturali” (ancor più che coercitivi), moralmente vincolanti, affinché “le parti mantenessero gli impegni anche quando era nel loro interesse economico a breve termine non farlo”. Sia nel caso di oggetti-feticcio nell’Africa Occidentale, sia nel caso di accordi contrattuali stipulati in Europa, le persone hanno conferito a tali “oggetti sociali” una sorta di potere su di loro, quando in realtà sono essi stessi i creatori di tali simulacri.
È proprio qui, infatti, che l’arbitrarietà del valore emerge più chiara che mai. La creatività, in realtà, non è affatto un aspetto degli oggetti, bensì una dimensione dell’azione.
“Nel caso dei contratti questo significa: comportati come se il contratto davvero ti punisse se infrangi le regole” e così va a finire che “le nostre azioni e creazioni hanno davvero potere su di noi”. Prima creiamo delle norme di condotta, poi le oggettiviamo, e infine ci scordiamo di essere stati noi a crearle. In questo senso, “attraverso una forma di investimento collettivo è possibile, di fatto, creare un nuovo dio sul momento”. Occorre allora riconoscere come:
Gli esseri umani creano i loro mondi collettivamente, ma a causa della straordinaria complessità con cui questa attività creativa viene coordinata a livello sociale, nessuno può davvero monitorare il processo, tanto meno prenderne il controllo. Di conseguenza, ci confrontiamo di continuo con le nostre azioni e creazioni come se fossero poteri alieni. Si parla di feticismo quando ciò avviene con oggetti materiali. Come i feticisti africani […] creiamo delle cose e poi cominciamo a trattarle come divinità.
Ecco, insomma, come si nasconde il processo con cui il valore viene creato. Non è difficile a questo punto capire perché “tutto ciò rende più facile trattare le ‘leggi del mercato’ o le tendenze di qualsiasi sistema come naturali, immutabili e quindi del tutto al di fuori di qualsiasi possibilità d’intervento umano”. Si finisce così in quella sensazione diffusa e ben conosciuta di “assenza di alternativa”.
In quest’ultimo saggio emerge dunque il carattere positivamente utopistico del lavoro di Graeber. Mostrando l’arbitrarietà del potere, la sua “deificazione”, scopriamo il suo paradosso, ossia il paradosso di “qualcosa che esiste solo se altre persone pensano che esista”. A fondamento del potere ci sono, in realtà, semplici “idee vincolanti” che lo sorreggono. Quando oggettiviamo le nostre azioni, diamo carattere di oggetto alle nostre relazioni sociali conferendo un potere magico alle cose inanimate, strumenti, amuleti, accordi, contratti, leggi e altri feticci il cui valore è puramente arbitrario, tale solo perché creduto oggettivo. Eppure, siamo stati proprio noi a crearli.
A questo punto risulta maggiormente chiaro come Graeber abbia inteso fare dell’antropologia un martello per la decostruzione, strumento capace di sgretolare la diffusa convinzione che non ci sia alternativa. Non un lavoro di avanguardia su quel che dovrebbe essere, ma un lavoro di decostruzione su quel che non è. Insomma, poiché le attuali configurazioni societarie sono delle costruzioni umane sempre mutabili e storicamente determinate, possono essere cambiate. Non c’è niente di inevitabile. In questo senso l’antropologia racchiude in sé grandissime potenzialità immaginative, che la rendono una disciplina, oggi più che mai, politicamente preziosa, per “accedere almeno occasionalmente a una prospettiva globale […] da cui si possa vedere che tutti questi oggetti in apparenza fissi sono, in realtà, parte di un continuo processo di costruzione”.
Il lavoro politico e culturale cui questo saggio ci chiama è quello di uscire dalla convinzione che siamo intrappolati in una realtà sociale che non ci appartiene.
In definitiva, il vero e urgente lavoro politico e culturale cui questo saggio ci chiama è quello di uscire dalla convinzione che siamo intrappolati in una realtà sociale che non ci appartiene: l’abbiamo creata noi, con i nostri strumenti e le nostre reciproche obbligazioni. Sono queste le origini del capitalismo, che poi sarebbero le “origini della rovina attuale” cui allude il titolo. Potremmo dire, usando proprio le sue parole, che attraverso queste analisi Graeber ha inteso cominciare “il lavoro più difficile, ossia cercare di comprendere i processi […] con cui le persone si creano e si modellano a vicenda”. Il che si è sempre tradotto, per lui, nello sforzo di capire come il mondo sia qualcosa che creiamo noi, e che dunque è anche qualcosa che “potremmo facilmente creare in modo diverso”.
Prendiamo allora le opere di Graeber e studiamole, discutiamole, diffondiamole, affinché, come ha scritto il curatore, le sue idee siano “d’aiuto a chi, oggi, non si rassegna alla naturalizzazione del capitalismo, del patriarcato e delle burocrazie statali coercitive” per meglio dedicarci, “con caparbietà e giocosità”, alla “costruzione di un mondo più libero”.